Le pratiche infinite della separazione lo avevano lasciato stremato. Era un momento veramente nero, non trovava piacere in nessun gesto, azione. Solo il lavoro lo assorbiva e gli faceva dimenticare le sedute dall’avvocato, le liti, i problemi del denaro. Avvertiva, o solo se lo immaginava, l’ipocrita comprensione dei colleghi e la scarsa attenzione dei pochi amici ai suoi problemi, sempre prontissimi a dirgli:” sai anch’io…”
Le ferie erano vicine, dove diavolo vado, voglia di organizzare un diversivo: zero. D’altra parte cosa sto a fare a Milano?
La sera, ancora in giacca e cravatta e ventiquattrore, si concedeva una pausa tra un metrò e il passante ferroviario e si fermava al bar tabacchi a bere un analcolico giallastro e a fare due parole con uno dei rarissimi amici che non lo tediavano con i “loro “ problemi. E parlando viene fuori un suggerimento: Stacca la spina, prendi il largo, insomma vai via almeno per una settimana …. Non poteva perdere il treno, la casa lo aspettava come un rifugio nel quale avvoltolarsi come in una coperta e aspettare un sonno nervoso favorito dalle idiozie estive della televisione. Il giorno dopo arriva la telefonata dell’amico: se vuoi vieni con me, ricordati del tuo vecchio brevetto di sub, ti porto con me una settimana, vicino, senza stress, gente nuova, diversa. Non dovrai dire niente, nessuno ti domanderà niente, e poi il mare…
Si lascia trascinare. Si, va bene, pensaci tu, ci vediamo alla
Malpensa.
La città bolle sotto un calore che non passa. Le rare persone in giro
camminano alla poca ombra lungo i muri. Con questo caldo sono in giro
solo i cani e gli inglesi. Passano rari tram carichi di filippini con
le borse della Esselunga sferragliando e alzando nuvole di polvere
secca e arida. E’ la vigilia di ferragosto e il tragitto fino
all’aeroporto lo fa pentire di aver accettato, ma ormai… é rassegnato,
non convinto e cerca allora di far ritornare, si sforza, vecchi ricordi
di pesca in apnea, gioie per le catture. Il mare, il mare .
Il viaggio è un trasferimento senza storia, sul volo turisti pallidi,
bambinetti noiosi e petulanti quasi tutti destinati a possibili
settimane cariche di gite forsennate e animazioni coatte. All’arrivo
tutti vengono ingoiati da dozzine di pullman e, finalmente, i piedi
sulla barca.
E’ come fosse scattato un interruttore: odori e rumori sepolti tornano
a galla. Sistemare l’attrezzatura, in cabina con l’amico, una bevanda
fresca di benvenuto ma , soprattutto… la barca. Il mondo di “prima” è
scomparso” e l’angelo suona la sua tromba e il mondo si apre”, come
scriveva un altro vecchio amico il pittore Eugenio Tomiolo.
Una volta, molto tempo prima, quando era libero e felice, si divertiva
a scrivere appunti di cronaca o di viaggio e ora la voglia lo
riprendeva, stimolato, eccitato da tutto ciò che non avrebbe mai
immaginato potesse succedere ancora. Voleva fissare quello che sarebbe
successo per non dimenticarlo più. La luce limpida e tersa, l’acqua
come una luce cangiante e i primi contatti con quel mare. Si riscopre
ancora bravo in acqua, la sensazione ritrovata del lungo respiro, il
solo rumore delle bolle, solo, senza peso, senza nessun peso….
Nei momento di pausa, comincia a scrivere …. Fisserà su occasionali
fogli di carta le visite a misteriosi relitti, immaginati, sognati come
vittime della fatalità o della guerra, le grida dei naufraghi, gli echi
delle battaglie. Ecco il cargo armato carico di tutto, esploso a metà
per una bomba maledetta che lo centra mentre la contraerea tira colpi
traccianti sugli aerei, ecco il vapore destinato alle Indie carico di
vino, di bottiglie di seltz e di sterline d’oro, ecco ancora l’altro,
dal nome omerico di Ulysses, un giardino di coralli variopinti e
ondeggianti con la corrente e tonni come siluri d’acciaio lucidato che
sfrecciano al largo. Ancora uno che ha un nome siculo/tedesco il
Rosalie Moeller, profondo e intrigante, anche lui colpito a un fianco,
un grosso buco dal quale, anziché uscire il sangue, è entrata a fiotti
l’acqua del Canale di Suez facendolo affondare dritto in assetto di
navigazione. E così è rimasto per molti anni sorvegliato da enormi,
pigre cernie, sorvolato da squali, visitato da quei piatti di argento
che sono i pesci pipistrello tenuto apparentemente bloccato non dal
fondo sabbioso, ma dalla catena dell’ancora piena di ostriche zig-zag,
prima di essere ritrovato da uomini curiosi.
E curiosi e gioiosi i delfini incontrati a ridosso di Abu Nuhas. Il
mare era mosso, onde basse e rabbiose, il gommone ritornava alla barca
e, d’improvviso, appare il branco di delfini: alla carica, il linea
sulle onde, quasi a fare il surf, dritti verso i sub buttatesi a mare,
a sprofondarsi con grazia a pochi metri per poi riapparire in distanza
e riprendere il gioco del finto assalto.
Come passavano i giorni si acuiva il piacere di immergersi e di
scoprire sempre cose nuove: creature mai viste come un gomitolo di
tentacoli aperto, una notte, e pronto a rinchiudersi alla luce della
torcia, la crudele caccia notturna dei pesci scorpione, l’eleganza di
una cosa rossa bordata di un merletto bianco, danzante nel buio sotto
lo spot di un riflettore. E la sensazione di sentirsi di nuovo vivo
emergendo dal nero e galleggiare, a faccia in su, guardando la volta
stellata senza luna. Di giorno, durante gli spostamenti, vedeva passare
isole deserte, gialle di ocra, circondate da un filo bianco di onde
prima che il mare si tingesse di turchese e di indaco. Si incontravano
altre barche, punti bianchi sull’azzurro intenso. Le immersioni si
susseguivano ed era un volare nell’acqua di cristallo. Qualche volta si
sorprendeva ad aprire le braccia come un gabbiano e planare verso il
fondo. Era ormai preso da questa magica, stregata natura che, ormai,
niente lo richiamava indietro. Una continua inarrestabile spinta lo
portava a vedere tutto sotto un’altra angolazione. Esisteva dunque un
mondo diverso, da vivere senza problemi, solo per poco é vero, ma che
ti segnava e ti insegnava molto sulle cose e sugli uomini.
Lo sbarco, gli addii ma quella manciata di fogli con date, luoghi, nomi
era ben stretta nella sua mano.
Bruno
Bruno Fullin