All’inizio era stato un ripiego.
Fino all’ultimo avevamo sperato di poter partire per Socotra, nonostante le notizie
sempre più preoccupanti che arrivavano sui disordini in Yemen. Poi, dieci giorni
prima della data presunta di partenza, la Farnesina aveva emesso la “fatwa” definitiva
e a noi “socotrini mancati” non era rimasta altra scelta che disperderci fra varie
altre destinazioni.
Ci siamo così ritrovati in quattro ai banchi di partenza per Port Sudan, un po’
delusi e mugugnanti, con qualcuno ancora convinto che saremmo potuti partire ugualmente
per lo Yemen…
Ma il Sudan non tradisce mai e, nonostante una partenza un po’ turbolenta (tre ore
di assoluta agonia, durante le quali ho veramente capito cosa sia il mal di mare),
ci ha poi concesso di esplorare praticamente tutti gli splendidi reefs del Sud in
programma.
Mare generosissimo, guide eccellenti, compagnia simpatica e ottima cucina hanno
dissipato in fretta i nostri residui rimpianti, regalandoci una settimana di emozioni
e divertimento almeno pari alle aspettative.
Sudan per me però non è solo subacquea: in Sudan in passato avevo campeggiato
alle spettacolari piramidi di Meroe, in una indimenticabile notte di plenilunio;
avevo visitato i resti delle città dei Faraoni neri, avevo conosciuto la simpatia
e l’ospitalità avvolgente dei popoli nubiani; avevo anche intravisto la desolazione
degli sterminati campi profughi intorno a Karthoum, a breve distanza dagli esclusivi
quartieri dei potenti.
Soprattutto, avevo fatto la straordinaria esperienza di vivere una giornata al “Salam”,
l’ospedale cardiochirurgico di Emergency., nella periferia della capitale.
Un ospedale del quale sapevo quasi tutto, a partire dalle polemiche che l’avevano
accompagnato fin da quando era solo un’idea nella testa di pochi sognatori, convinti
che si potesse e dovesse dare anche all’Africa una sanità di altissimo livello e
soprattutto gratuita. Impossibile, per quasi tutti; una cattedrale nel deserto,
qualcosa che non avrebbe mai funzionato, un inutile spreco di risorse.
Invece, una struttura splendida, efficiente, pulitissima, ecosostenibile, che lavora
a pieno regime salvando vite, formando personale qualificato, creando cultura sanitaria
ma anche cultura di solidarietà e di pace.
Non posso quindi perdermi la visita del cantiere dell’ospedale pediatrico di Port
Sudan, a pochi minuti di taxi dalla città, accompagnata dal fido Hamam, per l’occasione
interprete e “body guard”, e dall’amico Carlo.
Lì Roberto, il responsabile dei lavori, ci spiega il progetto, illustrandoci anche
alcune interessanti soluzioni architettoniche (ad esempio i badgir, sistemi di ventilazione
di origine persiana, che permettono di abbassare sensibilmente e in modo naturale
la temperatura interna) e ci presenta l’ingegnere capo del progetto: sudanese, giovane,
competente e soprattutto donna!
Risulta già evidente dallo “scheletro” lo stile dell’architetto Pantaleo, analogo
a quello del Salam: una struttura estremamente essenziale, minimalista, ma di grande
impatto estetico, integrata con le aree verdi che sorgeranno intorno, sorta di oasi
in una zona estremamente arida e depressa. Ci sarà anche un campo sportivo, inteso
come centro di aggregazione e svago della comunità che vive nei dintorni. E soprattutto,
fra poco arriveranno moltissimi bambini, ai quali verrà data una possibilità in
più per riuscire a diventare adulti.
(Nota: l’ospedale inizierà l’attività a luglio 2011 e naturalmente tutto lo staff
sarà felice di accogliere gli amici subacquei che vorranno visitarlo).
Ultima formalità, la sosta al Cairo prima del volo di rientro. Hotel a Heliopolis,
vicino all’aeroporto e lontano dal “pericolosissimo” centro città. Ovviamente, nessuna
intenzione di rimanere segregati nel ghetto di lusso,: propongo di cenare al Felfela,
ristorante celeberrimo fra backpackers e viaggiatori di Avventure nel Mondo, e quasi
tutto il gruppo si aggrega, stipato in un improbabile pulmino ricco di storia e
di ammaccature.
Scopriamo nell’arrivare che siamo a pochi passi da piazza Tahrir, cuore della rivolta
egiziana, e vediamo parecchio movimento, che ci incuriosisce un bel po’.
A quel punto, per nulla al mondo avrei rinunciato ad andare a incontrare la rivoluzione
in diretta: subito dopo cena mi precipito in piazza insieme ai miei compagni socotrini,
tutti ansiosi di recuperare almeno un po’ dell’avventura perduta.
All’inizio siamo titubanti e teniamo le macchine fotografiche nascoste; poi, emozionati
e commossi dall’entusiasmo della gente, che si accalca per riuscire a parlarci,
salutarci, raccontare, incominciamo a comunicare e fotografare liberamente.
Ragazzini con i colori nazionali dipinti in viso, un signore attempato che ci mostra orgogliosissimo la sua foto sulla prima pagina di un quotidiano, ritratto mentre manifesta contro il “Faraone”, e che poi ci tiene un comizio in arabo, tradotto in simultanea da volenterosi studenti; cartelli con scritte per noi indecifrabili, bandiere dappertutto: clima di festa e di speranza, assolutamente contagioso anche per noi, che ci sentiamo partecipi di un grande momento storico.
Con grande gentilezza poi ci chiedono di andarcene perché la piazza a mezzanotte
dev’essere sgomberata, pregandoci però di tornare il giorno dopo e chiedendoci di
pubblicare le foto su facebook; purtroppo dobbiamo partire e ci manca almeno una
giornata in più per scatenare le Nikon e respirare pienamente l’aria euforica del
Cairo.
Ritorno non abbiamo riempito la valigia di souvenirs pacchiani,
inutili magliette o illecite conchiglie, ma portiamo a casa indimenticabili emozioni,
qualche scatto interessante e splendidi ricordi.
Abbiamo lasciato, come si conviene ai veri viaggiatori, solo le impronte dei nostri
piedi, le scie delle nostre bolle e un pezzettino del nostro cuore.
Roberta Raffelli