Le prime e più sofisticate tecniche di navigazione si sono sviluppate nell’Oceano Indiano e sono frutto dell’interazione tra le varie culture che occupavano le sponde di questo mare. Gli Indiani erano considerati abili navigatori e furono tra i primi a comprendere e sfruttare il regime stagionale dei monsoni. I viaggi verso ovest erano condotti da ottobre a marzo, con il monsone di nord-est, quelli di ritorno verso est si svolgevano tra aprile e settembre, sfruttando il monsone di sud-ovest.
La navigazione araba era una diretta discendente di quella più antica di tradizione persiana. I Persiani, infatti, conoscevano fin da epoche remote la direzione fissa del polo e intuirono che la disposizione e il sorgere di alcune stelle poteva fornire la base di un sistema di riferimento per la navigazione.
Con l’espansione dell’Islam, a partire dall’VIII secolo d. C. le navigazioni arabe si intensificarono e si estesero dal mar Rosso a tutto l’Oceano Indiano. Tra il IX e il X secolo d. C. vennero tradotte in arabo le più importanti istruzioni di navigazione esistenti in greco, persiano e indiano. Tali informazioni ci sono state tramandate grazie all’opera di Ibn Majid al Najdi (1421-1500), navigatore arabo del XV secolo d.C. Egli, oltre ad aver raccolto testimonianze uniche sulla navigazione araba antica, accumulò oltre cinquant’anni di esperienza di navigazione tra l’Africa e la Cina.
In Occidente divenne famoso come il navigatore arabo che aiutò Vasco da Gama a trovare la rotta dall’Africa all’India.
Spingendo la tavoletta verso l'orizzonte e contando il numero di nodi scorsi (posti a distanze regolari sulla cimetta) spingendo la tavoletta verso l’orizzonte, si ricavava la latitudine.
Generalmente a ogni nodo corrispondeva la latitudine di un luogo già noto, come il porto di partenza o i principali porti di destinazione. Oppure il navigatore poteva fissare la cimetta al centro della tavoletta e, senza farla scorrere, annodarla nel punto preciso in cui questa toccava il naso o la bocca: la sua lunghezza avrebbe determinato la latitudine in cui ci si trovava.
Dal prototipo del kamàl e del khashàbà venne successivamente realizzato uno strumento simile, ma rigido, costituito da una stecca di legno che attraversava perpendicolarmente una successione di tre o quattro tavolette rettangolari poste a distanza regolare, che avevano la stessa funzione dei nodi.
L’uso di questo strumento si diffuse soprattutto tra i navigatori portoghesi.
Nel caso del khashàbà la distanza tra l’osservatore e la tavoletta rimane invariata, equivalente ad una lunghezza di braccio, e la latitudine si misura in spessore di dita (isba‘).
Il khashàbà non era una grezza tavoletta di legno ma un oggetto raffigurante una mano con quattro dita ben delineate. La forma derivava sicuramente dall'uso antico della semplice mano: per poter contare la latitudine, infatti, bisognava distendere il braccio, allineare la propria mano con l’orizzonte e contare il numero di dita o di mano (4 dita) necessarie a collimare la Stella Polare. Tuttavia, la lunghezza del braccio e la dimensione della mano sono variabili, e perciò si ricorse ad uno strumento di legno che imitasse la mano ma che avesse dimensioni standard, cioè 2 cm di spessore per ogni isba‘ e una cordicella di 63 cm corrispondente alla lunghezza di un braccio, in modo da ottenere misure regolari, comprensibili e condivisibili da tutti i navigatori.
Alcuni testi navali riportano che per misurare l’altezza delle stelle più alte i navigatori usavano più tavolette di legno affiancate e sappiamo che lo stesso Ibn Majid, ma anche il navigatore portoghese João de Barros, ne utilizzò contemporaneamente fino a tre tavolette, di quattro unità l’una, riuscendo così a leggere angoli ampi anche12 isba‘.
Questi strumenti di misurazione erano calibrati sull’unità di misura del dhubbàn, cioè lo spessore di quattro dita.
Alcune stelle importanti, come Canopo (Suhayl), hanno il proprio dhubbàn, cioè una stella distante circa quattro dita dalla stella primaria, e secondo alcuni antichi testi navali arabi il dhubbàn più attendibile su cui calibrare tutte le altre misurazioni era la distanza tra la stella Capella e il suo dhubbàn, βAurigae, più nota con il suo nome arabo Menkalinan, nella costellazione di Auriga
Testo di Chiara Zazzaro
Foto Alessandro Ghidoni