ASMARA, ARRIVEDERCI

Mi ero innamorata dell’Eritrea molti anni fa, ascoltando i racconti dei pochi che l’avevano visitata e parlavano di una capitale in stile italiano miracolosamente intatta nel cuore dell’Africa, gioiello architettonico razionalista e art déco; poi mi avevano definitivamente conquistata i romanzi di Erminia Dell’Oro, scrittrice nata ad Asmara da famiglia italiana. Perciò sono stata la più convinta sostenitrice del fatto che Massimo, anche lui asmarino di nascita, dovesse organizzare lì il primo dei workshop fotografici che avevamo in mente. Ma è stata una sorpresa davvero incredibile scoprire poco prima della partenza che Erminia è addirittura sua zia: mi è sembrato di chiudere un cerchio, quasi di ricevere un magico segnale dalle divinità dei viaggiatori. Magico, il viaggio lo è davvero. Capita talvolta che si realizzi una perfetta alchimia fra i luoghi, le atmosfere, gli abitanti ma anche le persone del gruppo; è un evento raro, che rende tutto prezioso e indimenticabile. Per noi, l’Eritrea è così.  Asmara è una città speciale: uno spaccato dell’Italia di sessant’anni fa ma nello stesso tempo un’inconfondibile identità africana, per di più in un clima da perenne primavera.

Passiamo da un caffè all’altro, apprezzando l’espresso preparato con una cura da noi dimenticata; gli arredi ci ricordano i bar della nostra infanzia, i biliardi con gli uomini impegnati in interminabili partite a stecca o boccette sembrano usciti da un film con Tognazzi e Gassman. La domenica mattina, italiani ed eritrei vestiti a festa si incontrano a spettegolare sui gradini della cattedrale, dopo la messa.

Ma è Africa vera il caravanserraglio, trasformato in un’immensa officina a cielo aperto, nella quale ogni genere di rifiuti metallici viene ingegnosamente riciclato, perché le materie prime scarseggiano e nulla va gettato via. Sono Africa la chiesa ortodossa e la moschea, testimoni di un luogo in cui le religioni convivono pacificamente; è Africa il mercato pieno di colori e di odori, quello del berberè a sovrastarli tutti. Si cena a volte con lasagne e cotolette, a volte con injera e zighinì; innaffiandoli con la celebre birra Asmara (ex Melotti) e liquore di araki per digerire.

Giriamo in lungo e in largo la città, ammirando le geniali architetture futuriste del garage Tagliero, le eleganti ville dei quartieri residenziali, i cinema, i teatri e insomma tutto quello che le ha valso il titolo UNESCO di patrimonio dell’umanità, senza dimenticare come arte e bellezza fossero riservate solo agli occupanti italiani e che qui si praticasse un apartheid identico a quello sudafricano.

Ma l’Eritrea non è solo Asmara e per poter dire di conoscerla almeno un po’ occorre lasciare la capitale e partire, lungo la ferrovia costruita dai nostri coloni a cavallo fra Ottocento e Novecento, oppure lungo le strade di epoca mussoliniana, fino a raggiungere Keren e Massaua.  Il treno a vapore è una storia nella storia; rimesso in funzione solo ad uso turistico per via dell’elevato costo di funzionamento, offre comunque l’esperienza di un vero salto nel tempo. Mentre la locomotiva sbuffa, arrampicandosi lungo i fianchi della montagna e attraversando miracoli ingegneristici di gallerie e ponti, noi osserviamo con ammirazione lo stoico lavoro dei macchinisti e del frenatore che la conducono con sicurezza. Nel cantiere ferroviario, i locomotori che attendono il completamento del restauro esibiscono quasi tutti il marchio Ansaldo.

Keren è sede di un celeberrimo mercato di bestiame; una graziosa, sonnolenta cittadina fra l’arabo e il coloniale che il lunedì diventa frenetica come una Wall Street africana, fra fasci di banconote che cambiano di mano velocissimi e uomini inturbantati che sfoggiano cellulari di ultima generazione. Ci piacerebbe rimanere più a lungo, sorseggiando birra al fresco mentre osserviamo la vita del paese, ma non possiamo permettercelo. Ripartiamo con parecchio rimpianto verso la torrida costa del Mar Rosso.

Il paesaggio è desolatamente arido: la stagione delle piogge è in arrivo, ma la siccità che sta affliggendo tutto il Corno d’Africa da alcuni anni è ben visibile e suscita un senso di angoscia. La dignità delle persone lo lascia solo intuire, ma l’Eritrea è allo stremo e non solo per carenza d’acqua. Il dissennato servizio militare a tempo indefinito imposto a ragazzi e ragazze, la mancanza di libertà di espressione, la guerriglia infinita ai confini con l’Etiopia e le sanzioni dell’ONU per il presunto sostegno ai gruppi armati somali portano a una fuga massiva dei giovani dal paese, tanto che si calcola che metà della popolazione viva attualmente in esilio. Incontriamo praticamente solo vecchi e bambini: le energie produttive sono decimate, le forze rinnovatrici represse con violenza e rimangono solo anziani, delusi da una rivoluzione che ha spento le grandiose aspettative che aveva creato e giovanissimi con in testa l’unico obiettivo dell’Europa o degli USA.

Questo senso di impotenza è particolarmente evidente nella devastata Massaua, un tempo centro di villeggiatura dei coloni, resa affascinante dalle architetture arabe e dalle favolose ville sul mare. Mentre Asmara, protetta dai suoi 2400 metri di altitudine, è passata praticamente indenne attraverso le innumerevoli guerre del secolo scorso, Massaua è stata martoriata dai bombardamenti marittimi. La mancanza di risorse ha poi reso impossibile una ricostruzione, mentre la più facile accessibilità di altri porti sul Mar Rosso l’ha tagliata fuori dallo sviluppo commerciale, per cui gli ormai scarsi abitanti si sono installati negli edifici pericolanti, sopravvivendo alla meno peggio con pesca e lavoretti precari. Mentre ci aggiriamo fra macerie che sembrano del giorno prima, ragazzini allegri giocano a calcio in spiazzi polverosi, evocando immagini già troppo viste nei reportage afghani o iracheni.

In un vicolo, alcune donne preparano il caffè secondo il metodo tradizionale, nel quale la lentezza del rituale è soprattutto un’occasione di condivisione e socialità; siamo invitati anche noi e assaporiamo la bevanda, arricchita di zenzero, avvolti in un aroma inebriante e un’atmosfera conviviale che fanno dimenticare la disperazione che ci circonda. Visitiamo la scuola fondata e gestita dai frati cappuccini, invitati dal padre Protasio che abbiamo conosciuto ad Asmara. Più di mille ragazzini dalla prima elementare alla terza superiore, quando sono costretti a interrompere gli studi per il servizio di leva, arrivano qui da tutto il circondario, percorrendo fino a dieci chilometri al giorno. Per fortuna, i frati sono riusciti a procurare a ognuno di loro una fiammante bicicletta, che ci viene esibita con grande orgoglio e che permette di rendere più accettabili i tempi di spostamento. La scuola è un’oasi di speranza in un deserto e ci commuove profondamente il lavoro dei religiosi, interessati al futuro di questi giovani più che alla loro fede di provenienza.

Il ritorno ad Asmara è un po’ come ritrovarsi a casa. Ricominciamo con il rito del caffè macchiato con brioche al caffè Vittoria, delle tagliatelle al Sicomoro, delle passeggiate sotto le jacaranda in fiore e delle riunioni all’hotel Amba Soira per confrontarci sul lavoro eseguito ma anche sulle emozioni vissute. I giorni sono volati e dobbiamo già salutare i nostri amici, soprattutto l’impareggiabile guida Tesfai.Mi sembra di poter capire a fondo solo ora la tristezza di chi ha dovuto e ancora adesso deve lasciare questo paese, perché è un po’ anche la nostra. Per questo, vorrei parafrasare Erminia, trasformando il suo titolo più famoso in un più ottimistico “Asmara, arrivederci”

Testo e foto di Roberta Raffelli

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